Abbiamo percorso le medesime regioni, su strade parallele oppure sulle stesse strade in momenti diversi. E’ accaduto così a Ramallah, quando Amedeo Ricucci si trovò a raccontare l’uccisione, nel marzo 2002, per mano dei soldati israeliani, del fotoreporter italiano Raffele Ciriello. Per me quella stessa cittadina palestinese è stata “pane quotidiano” di altri innumerevoli scontri a fuoco, manifestazioni pacifiche e incontri politici che hanno segnato il tempo di questo luogo e anche il tempo dei miei undici anni trascorsi, come corrispondente, in Israele e in Palestina.
Ho seguito i servizi trasmessi da Amedeo anche da tanti altri luoghi, dalla Siria, dall’Afghanistan, dalla Libia. Servizi asciutti nel linguaggio, mai retorici, mai raccontati con toni sopra le righe. Ho letto, dopo la sua morte, racconti di alcuni amici e colleghi (Riccardo Cristiano, Laura Silvia Battaglia, Maria Grazia Mazzola) che meritano di essere letti perché hanno evidenziato tanti aspetti della sua professionalità e della sua umanità.
Un aspetto invece è stato poco evidenziato. Paradossalmente, è quello che più volte negli anni trascorsi mi aveva colpito. Era la sua passione perché il lavoro di inviato televisivo, il nostro comune lavoro, si potesse svolgere nel riconoscimento generale (in primo luogo all’interno della nostra azienda RAI) delle regole da rispettare. Aveva ben chiaro come il lavoro del giornalista televisivo fosse un “lavoro di squadra” che impone la collaborazione tra professionalità diverse, mezzi tecnici adeguati, lungimiranza nelle scelte dell’Azienda RAI, sostegno intelligente dalle redazioni, competenza, consapevolezza e umiltà reciproca.
Ho trovato più volte queste riflessioni all’interno di una chat riservata a noi giornalisti, dove lui si esprimeva con libertà non rifuggendo da una verve polemica pungente. In queste ore, ho riletto alcuni di questi interventi. Ne voglio citare due.
Il primo è dell’ottobre del 2014 ed ha come scenario la Siria.
“Ok, ormai siamo abituati ai calci in faccia, ok, ormai sappiamo che per la nostra dirigenza siamo degli incapaci, ma che in Siria al posto di inviati RAI, a documentare la battaglia di Maaloula, ci sia un collega esterno, mi fa incazzare. Certo era l’unico giornalista sul posto e abbiamo dovuto affidarci a lui, ma il problema non è questo, il problema è: perché non c’eravamo anche noi? Perché non si permette agli inviati di fare il loro lavoro sul territorio, che sia Italia o estero? Un inviato non deve partire solo quando c’è pezzo, la forza di una grande azienda editoriale è quella di potersi permettere gente che lavora all’esterno delle redazioni per essere nel posto giusto al momento giusto, come è sempre stato. Il modello di informazione usa e getta non paga e chi continua ad adottarlo è colpevole del degrado dell’informazione fornita dalla Rai, che siano direttori o capiredattori. Con il modello proposto dalla riforma le cose possono solo peggiorare. Spero che la cosa non finisca qui e, soprattutto non si ripeta. Come sindacato dobbiamo fare la nostra parte.”
La Rai ha visto approssimarsi innumerevoli riforme, ma negli ultimi decenni è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa, nella sua suddivisione interna, con l’eccezione della sopraggiunta Rainews.
Con la vecchia struttura ha affrontato anche la recentissima guerra in Ucraina. Su questa drammatica vicenda Amedeo rifletteva nel marzo scorso, con sincerità, senza fare sconti a nessuno.
E’ utile leggere la parte iniziale della sua lunga riflessione.
“Cari Colleghi,
non so cosa ne pensiate voi ma a me pare che il modello produttivo, organizzativo e finanche editoriale che la nostra azienda ha messo in campo per “coprire” questa guerra in Ucraina faccia acqua da tutte le parti. E’ a mio avviso un modello all’italiana, anzi all’amatriciana: improvvisato e arrangiato, capace sì di fare le nozze coi fichi secchi – sai che soddisfazione! – ma al tempo stesso zoppicante e non all’altezza dei tempi, distante non a caso anni luce da quanto ci stanno facendo vedere i grandi network internazionali. A scanso di equivoci aggiungo anche che trincerarsi dietro ascolti – che ci premiano, sì, ma capita sempre in queste occasioni, è una questione di brand – mi pare di scarso conforto se questo significa non voler raccogliere le sfide che abbiamo davanti e rassegnarci non solo a una perdita di prestigio ma ad un ridimensionamento deciso, di cui già si vedono i primi segni.
Attenzione, non è una questione di capacità personali dei giornalisti sul campo o nelle redazioni, quanto di scelte: scelte produttive appunto – prima fra tutte quella che ha portato di fatto la RAI a rinunciare alla produzione in proprio delle immagini, che dovrebbero rappresentare invece la materia prima del nostro lavoro – ma anche scelte nell’organizzazione del lavoro giornalistico all’interno delle redazioni – un solo esempio: le linee sono sempre meno competenti e da tempo danno priorità al lavoro da desk e non a quello degli inviati sul campo, ridotti ad orpelli per i giorni di festa – per finire con le scelte strategiche di carattere editoriale, dalla tanto osannata digitalizzazione lasciata in realtà incompiuta – gli archivi di testata sono lasciati al volontariato di qualche bravo media manager – al limbo in cui sono state collocate sia RAINEWS 24 che il sito RAI, che non a caso producono entrambi uno share e un traffico da TV di provincia…”
E’ la riflessione di un inviato, che si è confrontato per anni con i colleghi delle testate televisive straniere. E’ una riflessione che può essere banco di lavoro per molti in Italia: giornalisti, dirigenti aziendali e telespettatori.
Questo ricordo di Amedeo Ricucci è pubblicato anche sul sito di Lettera22.