Filippo Landi

Se mi guardo indietro, vedo un punto di partenza. Sono i tanti pomeriggi trascorsi (quando avevo tredici, quattordici, quindici anni) a sfogliare i volumi dell’enciclopedia geografica “Il Milione”.  Mio padre, impiegato dello Stato ed ebanista nel suo secondo lavoro, l’aveva comprata a rate. Ho imparato su quella enciclopedia che esisteva uno Stato arabo, ricchissimo per il petrolio, il Kuwait, che avrei percorso decenni dopo. Le mie mattine dopo la scuola, invece, erano segnate dal rituale di sfogliare un  quotidiano. Lo acquistava con assiduità un’amica di mia madre, ed io lo leggevo in attesa che finisse il loro orario di lavoro. Lì ho letto per la prima volta del Vietnam  e della guerra che  coinvolgeva gli americani.  I miei genitori erano immigrati a Roma dalla Puglia. Mia madre, maestra elementare, aveva imposto l’obbligo in famiglia di parlare in italiano e non in dialetto. “Altrimenti” mi disse un giorno “rimarrai un adulto di serie b”. Così la pensava e forse aveva ragione, pensando alla feroce divisione tra borghesi e braccianti, tra l’italiano dei primi ed il dialetto dei secondi, che segnava le città e le campagne pugliesi.

Io, così, sono nato nel 1954 a Roma e qui ho studiato. Il primo giorno al Liceo classico Torquato Tasso, ricordo, discutemmo in cortile, in assemblea, dell’invasione della Cecoslovacchia, avvenuta il mese precedente, nell’agosto del 1968.  Insomma, il nostro orizzonte varcava già i confini italiani ed in questo mi sento di essere stato fortunato. Quegli anni sono stati segnati dalla contestazione studentesca e poi dal terrorismo. In quella situazione mi definivo, a scuola, un democratico, un moderato, un cattolico. Non era facile pensarla così. All’Università di Roma scelsi Scienze Politiche, con grande rammarico di mio padre che  la considerava una  fabbrica di disoccupati. Io volevo fare già il giornalista e per questo l’avevo scelta. C’era anche  Aldo Moro, tra i  docenti. La mattina del 9 maggio 1978, giorno del suo rapimento, udii in corridoio l’applauso di molti studenti al giungere della  notizia. Un fatto agghiacciante, che dava la misura della barbarie in cui eravamo costretti a convivere.

Gli anni universitari sono anche gli anni del mio  coinvolgimento con gli studenti che formavano, lì in Università, una comunità ecclesiale che aderiva a Comunione e Liberazione. Con loro inizia anche  la mia vita professionale. In primo luogo, in una radio privata e poi  nella fondazione del settimanale Il Sabato, diretto da Vittorio Citterich.  Faccio cronaca italiana e mi specializzo nel seguire  i fatti economici e sindacali, che  considero fatti seri e che toccano il vivere quotidiano della  gente.  Nel 1987 decido di lasciare Il Sabato: troppo forte la  divergenza con la  linea editoriale del giornale, che andava invischiandosi nella battaglia correntizia democristiana.

A metà di quell’anno mi viene offerto di iniziare a lavorare, in Rai, nel nuovo Tg3 Nazionale. Chiedo ed ottengo di lavorare alla redazione economica. Pochi anni dopo, in occasione della prima guerra del Golfo,  sarà il Direttore del Tg3 Sandro Curzi (un giornalista e un comunista con il quale andavo d’accordo)  a chiedere dei volontari, nel 1991,  per aiutare gli inviati all’estero. Vi sarei andato con l’operatore Alberto Calvi. Grande è stata la nostra soddisfazione nel vedere la scritta “courtesy RAI” sotto le immagini esclusive  di Calvi ritrasmesse dalla CNN, in occasione della resa dei primi tredici soldati iracheni in quella Guerra.

Rientrato in Italia vengo assegnato stabilmente, su mia richiesta, alla Redazione esteri del Tg3. Come inviato seguo da subito la guerra in Jugoslavia, in particolare in Croazia e in Bosnia. Sono presente più volte a Sarajevo durante i  mille giorni dell’assedio alla città da  parte delle milizie serbe. Nel 1992 vengo chiamato dal Tg1. E’ l’anno delle stragi mafiose in Sicilia. Insieme a molti altri colleghi vengo inviato in Sicilia, per seguire quegli eventi che stanno scuotendo le  istituzioni del paese.

Superata quella emergenza italiana, torno a raccontare il conflitto in corso appena oltre i nostri confini: in Bosnia, in Serbia, in Albania, infine in  Kosovo.  Tra  il 1994 e 1996  seguo anche alcuni avvenimenti in Africa e in Asia che scuotono l’opinione pubblica italiana. Nella regione centrale dei Grandi Laghi sono le stragi e gli esodi di massa paesi come  il Ruanda, il Burundi ed il Congo. In  Asia, in particolare, la crisi a Timor est.

Infine il Medio Oriente sarebbe tornato  ad essere centrale per il mio lavoro. Prima inviato in Libano, Palestina ed  Israele. Poi dal 2001, su  volere del Direttore del Tg1 Albino Longhi (un uomo rimpianto da me  e da molti altri in RAI)   corrispondente da Il Cairo. Due anni dopo vengo trasferito a Gerusalemme, dove rimango undici anni. Alla fine del 2014 torno alla Redazione esteri del Tg1 a Roma. Appena due anni. All’inizio del 2017 lascio la Rai. Meglio la piena libertà, che  una dorata prigione.