C’è un uomo, un politico, un primo ministro che viene rinviato a giudizio, un mese fa, dal Procuratore generale del suo paese per reati non di poco conto, come corruzione, frode e violazione della fiducia. Sempre in questo paese bagnato dalle acque del Mediterraneo, un mese dopo, gli iscritti al suo partito (poco più di centomila) sono chiamati a votare e a fare una scelta importante: quale candidato scegliere per guidare il partito alle prossime elezioni politiche?
E qui la sorpresa (che sorpresa non è): a grande maggioranza viene scelto, anzi riconfermato il candidato, che il Procuratore generale vuole mandare in un’aula di tribunale a rendere conto dei suoi atti (immunità parlamentare permettendo).
Qualcuno aveva pensato ad una scelta diversa o, al limite, ad una riconferma con un voto più ristretto. In parte, in verità, ciò è accaduto: su 116 mila iscritti, è andato a votare il 49 per cento. Segno inequivocabile di un disagio che serpeggia. Tuttavia, chi è andato a votare sceglie, in massa, il candidato rinviato a processo.
Il suo nome è Benjamin Netanyahu, Bibi per gli amici, primo ministro di Israele ormai da più di dieci anni.
Bibi apprende i risultati, si scuote dall’incubo di una possibile sconfitta in casa propria, sale alla tribuna, afferra il microfono e spiega: “avete votato contro le fake news!”
Come deve apparire “meschino” agli occhi di certi israeliani, invece, Avichai Mandelblit, procuratore generale di Israele. Aveva detto, in verità, che aveva assunto le sue decisioni (il rinvio a processo di Netanyahu) “con dolore, in un giorno triste per Israele e per me”.
Non per tutta Israele, evidentemente. Una parte del paese fa intendere, infatti, che non è peccato. Insomma, Bibi Netanyahu non merita disapprovazione e condanna per quello che ha fatto.
Allora, per capire, andiamo a vedere le accuse che Netanyahu aveva liquidato come “un abuso degli investigatori” (poliziotti e magistrati accomunati), una “caccia alle streghe”, “uno strumento per sovvertire il governo”.
L’accusa più piccola è quella di aver ricevuto doni ingenti, in particolare dal magnate di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario australiano James Pacher, in cambio di alcuni favori. Subito la replica: ma cosa sono pochi oggetti di valore per un miliardario? Su ciò che viene ottenuto in contraccambio molti sospetti e solo alcune prove.
Il bello comincia ora. Con quelle antipatiche registrazioni, dal tono e dai contenuti eloquenti. Si entra nel cuore dei comportamenti della politica verso l’informazione, che dividono Israele. Netanyahu ed i suoi collaboratori, si scopre, mettono in piedi azioni per blandire, manipolare e in definitiva controllare il mercato editoriale israeliano e soprattutto l’informazione nei confronti del primo ministro. Perché un problema esiste, soprattutto nel più diffuso quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth, quasi mai benevolo con il primo ministro. Per certi titoli, giudicati irritanti, era già notizia diffusa tra i giornalisti, israeliani e stranieri, che i collaboratori di Netanyahu avessero protestato con la direzione del giornale e criticato anche gli estensori di quei titoli. Nelle intercettazioni non c’è solo il bastone, ma anche e soprattutto la carota. In cambio di una complessiva e più benevola informazione sull’operato del premier, si prospetta da parte dei suoi collaboratori un piano per aiutare la diffusione del giornale ed anche maggiori introiti pubblicitari. Tutti i tasselli del piano non andarono in porto, ma il tentativo di condizionamento è rimasto.
Per ultimo, c’è la vicenda certamente più grave. Sono le decisioni di Netanyahu, come ministro delle telecomunicazioni, a beneficio di Shaul Elovitch, l’uomo dietro il colosso di internet Bezeq. Azioni che si sarebbero spinte a sostituire responsabili del ministero considerati non acquiescenti (le gole profonde?). Tutto questo in cambio di una copertura mediatica positiva per Netanyahu sul sito web Walla News. Informazione e politica, informazione ed immagine di Israele.
Per qualcuno, in Israele e fuori dal paese, non è peccato “agire” per influenzare. Anzi, nei confronti dell’informazione internazionale, sostenere la bontà delle azioni di Israele e del suo governo, per qualcuno, è necessario e “doveroso”. E si agisce, anche all’estero, su chi ha il cosiddetto potere mediatico.
Il ‘povero’ procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit, invece, non ha varcato i confini del paese. Ha solo valutato, per lunghi mesi, i fascicoli che si accumulavano sulla sua scrivania. E proprio non se l’è sentita di considerarle “fake news”.
Nulla di nuovo sotto il sole… a parte la cecità di chi non vuol vedere, e cercare la verità prima di decidere! La democrazia non è solo il diritto di votare. È il dovere di conoscere prima di farlo