Se non ci fosse stato Boban

Appena ieri mi sono imbattuto, con sorpresa e commozione, nell’ultimo segno di attenzione e amicizia che Boban Radovanovic, dalla sua casa in Serbia, aveva inviato a me e Paola, forse solo poche ore di morire. Un “mi piace” a un incontro dedicato alla situazione a Gaza e in Palestina, dove Paola sarà relatrice. Così voglio ricordare Boban, anche adesso: una persona intelligente e curiosa, generosa (come giustamente lo ha definito Mario Boccia) e paziente, professionalmente e umanamente di sostegno a chi gli era vicino. Per questo mi sembra giusto riproporre un capitolo, a lui dedicato, all’interno di un libro da me scritto. E’ una storia cresciuta durante l’assedio serbo di Sarajevo tra il 1992 e il 1995. Ciao Boban e grazie.

Di seguito il ritratto che ho dedicato a Boban nel mio libro Il tempo che rimane, pubblicato da hopefulmonster editore nel 2023 (postfazione del cardinale Matteo Maria Zuppi)

BOBAN

Durante l’assedio di Sarajevo c’è stato un uomo che mi ha fatto compagnia. Se non ci fosse stato, mi sono chiesto talvolta, non so come sarebbe andata a finire la mia lunga permanenza in quella città, straziata dalla guerra. Boban er­­a come l’unica solida banchina, in un porto bombardato.

 All’inizio dell’assedio avevi, paradossalmente, il tempo per abituarti alle sue regole. Occorrevano ore di auto per raggiungere Sarajevo. Potevi scendere dal nord, dalla lontana Belgrado, o venire dal sud, dalla ugualmente lontana Spalato, ma comunque avevi il tempo di abituarti a quello che avresti incontrato e poi vissuto.  Vedevi, prima, le campagne spopolate dove erano rimaste, a ricordo di un periodo non lontano,  case con spezzoni di facciate e tetti sventrati,  ma ancora allineate ai lati della strada da percorrere per raggiungere la meta.

Strana definizione per una città assediata. Solo i più anziani a Sarajevo potevano ricordare la Seconda guerra mondiale, l’occupazione tedesca e la guerra partigiana.

Eppure, c’era l’altro modo per arrivare a Sarajevo,  ancora più surreale. Con il permesso delle Nazioni Unite salivi su un aereo militare e attraversavi i cieli  per superare il muro invisibile ma ugualmente crudele dell’assedio.

In  meno di un’ora, si poteva passare dall’odore del vivere quotidiano a quello acre della guerra. Era qualcosa che uno psichiatra avrebbe forse definito una follia.  Se poi avevi la possibilità di uscire da quella follia,  ma dovevi poi ritornarvi per continuare il tuo ben strano lavoro, allora ti accorgevi che  Boban era ben più di un compagno di lavoro.  Era come il blocco di pietra di quella banchina al quale annodare la propria barca.

Boban aveva legato, ad un certo momento della sua vita, la sua corda a quella città. Lo aveva fatto per una scelta pragmatica, non per amore. Per lui, serbo, entrare e uscire da Sarajevo, insieme ai giornalisti che chiedevano di poter lavorare con lui, diveniva infatti ogni giorno più difficile.   Era un  traditore per i miliziani serbi, un personaggio sospetto  agli occhi dei  combattenti bosniaci.  Decise di limitare gli spostamenti e  continuare a lavorare soprattutto  a Sarajevo,  fin quando sarebbe stato possibile.  D’altra parte,  erano rimasti in quella città, anche dopo l’inizio dell’assedio, dei serbi importanti.

 Tutti sapevano del generale serbo  Jovan Divjak, nato a Belgrado,  cha era rimasto a Sarajevo e anzi guidava i suoi difensori. Combatteva i suoi ex commilitoni e soprattutto i miliziani serbi che lo avrebbero volentieri ucciso, se ne avessero avuto ‘occasione. E’ divenuto così uno degli eroi di Sarajevo, la città per la cui dignità ha combattuto e in cui è sepolto dal 2021.

Boban invece non era mai stato un militare. Anzi, aveva evitato l’arruolamento, non tanto per paura, ma  piuttosto perché considerava stupida quella guerra. Non amava i politici  croati e quelli bosniaci, ne le loro rivendicazioni nazionali, per lui solo nazionalistiche. Soprattutto, considerava stupidi anzi criminali i politici serbi che si riempivano la bocca di nuovi e vecchi slogan. La grande Serbia non gli apparteneva, ancor di più detestava chi dava l’ordine di sparare, anzi massacrare, chi serbo non era. D’altra parte, suo padre aveva accettato  l’emarginazione dal lavoro,  piuttosto che firmare il manifesto della Grande Serbia, condizione  per continuare ad insegnare nell’Università  di Belgrado.

Boban non  aveva voluto imbracciare quel fucile. Era entrato così  in quel mondo variegato di giovani serbi che avevano lasciato le  proprie città e spesso i confini della stessa Jugoslavia, ora in frantumi.

Lui, in verità, quei confini li aveva già varcati  tante volte, quando era  assistente di volo della compagnia aerea jugoslava. Fino al giorno in cui tutti i suoi velivoli non rimasero a terra.

Decise di cambiare lavoro e di fare il producer, forte della conoscenza di molte lingue. Lavorava ormai a tempo pieno  per i giornalisti che  venivano a seguire una guerra che  si prolungava negli anni.

Ci conoscemmo dunque a Sarajevo. La sua fama lo aveva preceduto. A un collega che andavo a sostituire chiesi di fare da tramite. Accettò di lavorare con uno sconosciuto e io fui contento di tornare in quella città avendo un compagno che tutti dicevano conoscesse  molto bene quelle strade e soprattutto chi ancora le abitava.

Cominciò dalle piccole grandi cose che ti cambiano la vita quando sei catapultato nel mezzo di un conflitto. Mi fece conoscere il direttore dell’albergo, dove io tornavo e dove lui ormai alloggiava da mesi. A bassa voce, nel mio orecchio, mi informò sull’intesa raggiunta: una camera per me al primo piano, certo  più sicura, in caso di un bombardamento, di quella al quarto piano che già avevo sperimentato. In quel piano mi ero ritrovato a fare il pompiere volontario nella stanza in fiamme, che si stagliava di fronte alla mia.

 In cambio di quello spostamento di piano Boban aveva offerto al direttore di poter utilizzare il mio telefono satellitare, per parlare con la moglie e i figli profughi in Germania. Già la sera del  mio arrivo, Boban lo accompagnò nella  mia stanza. Già di questo era riconoscente. La telefonata inoltre ebbe successo. Non volle essere lungo , ma alla fine era felice. Mi ringraziò più volte. Attraverso  Boban, gli dissi che poteva  tornare anche nei prossimi giorni e mi sembrò comprendere che era un’offerta che  andava  oltre un’intesa tra persone  ugualmente interessate.

Boban, ovviamente, affrontava anche il cuore del nostro lavoro:  le notizie della giornata, chi potevamo intervistare o al contrario la disponibilità di  chi io volevo incontrare. Più volte al giorno parlava con i responsabili dell’Eurovisione  a Sarajevo, per avere la certezza degli orari di montaggio e di trasmissione.

Più trascorrevano i giorni, più la vita quotidiana si intrecciava con le conseguenze dell’assedio alla città.  Divenivi sempre più un suo abitante e ne scontavi le conseguenze. Soffrivi il freddo, per strada come dentro la tua stanza. Non avevi acqua calda anche se, da ricco privilegiato,  avevi quella per bere. Mangiavi tutte le sere, perché i tuoi soldi in contanti lo permettevano.  Eppure, anche per noi, il cibo diminuiva e diveniva sempre più uguale a quello del giorno precedente o del giorno successivo.

Cominciavi a mettere da parte il grasso della carne e le sue ossa. Avvolgevi tutto in un tovagliolo di carta e  ti alzavi per andare in bagno. Invece dietro l’angolo imboccavi il corridoio che portava ad una porta di servizio. Fuori dall’albergo, sul marciapiede, non mancavano mai almeno un paio di cani in attesa. Appena svuotavi il tuo involucro, ne arrivavano altri. Erano tutti magrissimi, perché nessuno tra gli abitanti poteva dare loro da mangiare. Quando tornavi indietro era frequente incontrare nel corridoio altre persone che furtivamente  andavano a lasciare i loro avanzi fuori dalla porta. Quando aumentò ancora la fame degli abitanti della città, i cani diminuirono per poi scomparire. I cani sopravvissuti alle bombe divennero cibo per gli esseri umani.

Boban si rendeva conto di questa deriva, ma ben poco poteva fare. Un giorno reagì  a modo suo.  Al mattino disse di avere un impegno e che aveva bisogno della nostra auto. Non aggiunse  una parola di più. Né io chiesi nulla, perché ero convinto che avrebbe fatto qualcosa di utile. L’attesa del suo ritorno fu lunga, al punto di suscitare la nostra preoccupazione. I timori si dileguarono davanti al suo sorriso  e alla sibillina spiegazione: “Stasera ci sarà una sorpresa.”

In tempi più felici la discoteca, nel seminterrato, era il luogo meno visibile all’esterno, con le sue mura prive di finestre. Ora era il ristorante.  Un cameriere entrò in sala con un cartone di uova e superata la sorpresa tutti applaudirono.

“Questa è la sorpresa. Le nostre uova.”

 Così disse Boban e per la prima volta confessò che attraversava, con la nostra auto, la linea del fronte.

         “Quando devo fare rifornimento di benzina sono costretto ad andare in zona serba a Pale.  Stamane ho fatto qualche altra domanda ed ho trovato le uova appena fuori paese.”

         La metà di quel cartone di uova andò la sera stessa alle famiglie di un paio di amici a Sarajevo.

Il racconto di Boban purtroppo era anche la risposta a una domanda che temevo di fare.  Dunque, la nostra benzina non veniva dal mercato nero di Sarajevo, ma da un luogo dove era sempre disponibile e costava di meno. Un paese serbo, che solo Boban in quanto serbo, poteva raggiungere, per poi rientrare a Sarajevo. Una scelta comunque pericolosa.

“Boban, sia chiaro, è l’ultima volta. Per le uova possiamo fare a meno, per la benzina comprala  dentro Sarajevo, anche se dovesse costare il doppio o il triplo  rispetto a Pale.”

“In alcuni giorni, quando c’è, costa anche  di più. Il problema più grande  è che  manca per settimane .”

“Allora ci affideremo a qualche tassista che circola ancora e che si rifornisce  in qualche modo.”

         Accettò senza fare polemiche. Tuttavia, cominciò ad essere sempre più evasivo nei suoi spostamenti in città e talvolta ritardatario. Il lavoro non era pregiudicato, ma la nostra amicizia  era messa alla  prova. Era evidente che  nascondesse qualcosa ancora. Spesso, non cenava con noi, avanzando appuntamenti serali fuori dell’albergo. Nulla di impossibile, perché il coprifuoco serale, dopo aver vissuto alcuni mesi in città, diveniva una restrizione che volevi ed eri capace di aggirare. A Sarajevo in tanti continuavano a vedersi anche la sera e la notte. Si percorrevano le strade in auto, ma non più dello strettamente necessario. Nelle case o  nei ristoranti si rimaneva spesso fino all’alba e si usciva allo scadere del coprifuoco. Anch’io lo avevo fatto più volte.

Boban era convincente, ma con una punta di fastidio quando qualcuno aggiungeva domande a domande. Al punto che mi sembrò nascondesse una storia d’amore. O, in un’altra ipotesi, assai diversa, una storia di droga.

Non mi vergogno a dirlo: una sera decisi di seguirlo. Ci aveva raggiunto al nostro ristorante e aveva ripetuto la sempre più frequente scusa: non si fermava a cena perché aveva un appuntamento con degli amici di Sarajevo. Quella volta decisi di seguirlo fin dove avessi potuto. Volevo conoscere la verità e forse proteggerlo, se necessario.

Non dovetti andare lontano.  Aveva  preso le scale dell’albergo ed era salito all’ultimo piano.  Anche a costo di pregiudicare un’amicizia, lo seguii. Nel corridoio di quel piano,  vidi Boban in mezzo a un gruppo di uomini in divisa e tutti armati. Soldati bosniaci, evidentemente. Mi avvicinai e me li presentò come suoi amici. Non gli credevo e lui lo intuì.

“Adesso devo andare con loro. Poi ti spiego. Domani mattina.”

Il fatto che non volesse chiarire subito, ma rinviasse al giorno dopo, mi sembrò il segnale di una costrizione a cui non poteva sottrarsi.

Mantenne la sua promessa.

 “Stanotte sono andato a Pale e all’alba sono tornato a Sarajevo.”

“Non dirmi che sei andato per me. Per comprare la benzina!”

“Sono stati i soldati, che ieri sera hai visto in corridoio, che mi hanno chiesto  di comprarla. Io ho l’accredito da giornalista e sono serbo. Una o due taniche  per loro, e una per noi. Nulla di più.”

Quante volte sei andato?”

Non rispose. Disse di non ricordare.

“Devi dirgli che non andrai più. Noi ci arrangeremo, lasceremo l’auto in garage e faremo un accordo con un tassista. “

“Filippo, non posso dirgli di no. Loro vogliono che io vada e quella  benzina  la vogliono per loro. Non è una questione militare, è una cosa privata. Hanno detto che posso rimanere a Sarajevo se faccio questo servizio per loro. Altrimenti, posso essere anche arrestato, come  una spia serba che  sta a Sarajevo sotto la copertura di giornalista. È un ricatto, lo so bene, ma  ora  non posso dirgli di no.”

Si era cacciato in una situazione che, comunque,  non poteva durare. La decisione, poi, fu stranamente rapida. La sera gli dissi che doveva andar via da Sarajevo e che lo avrei aiutato. Condivise questa  mia  decisione come  se fosse  la sua  liberazione.

“Allora, devo partire subito senza che nessuno se ne accorga. Altrimenti non mi fanno uscire.”

All’alba io e Mauro lo aspettammo all’auto. Mauro aveva svuotato mezza tanica di benzina, fino a riempire il serbatoio. Nell’auto Boban fece entrare un paio di quadri, erano il suo ricordo di Sarajevo, una borsa di tela  con qualche camicia e un paio di pantaloni, che dovevano aiutarlo ad affrontare il futuro. Sul sedile posteriore anche la solita telecamera di Mauro.

Arrivati in periferia, l’unico modo per Boban per uscire dalla città senza permesso era entrare nell’aerea dell’aeroporto e poi percorrere, in auto,  a tutta  velocità la  pista di atterraggio degli aerei, in direzione delle  vicine  colline controllate dai serbi.  Gli aerei che atterravano o decollavo da quella pista godevano di un precario accordo: nessuno doveva farne  un bersaglio.

Il cancello lungo il reticolato che cingeva l’aeroporto fu il più facile da  superare. Due di noi avevano la tessera Onu che permetteva l’accesso alle partenze e il terzo, Boban, quella che consentiva di accompagnarci ma non di partire.

Aspettammo di vedere che sulla pista non ci fossero aerei ne altri che si avvicinassero, per atterrare. Mauro sterzò verso il parcheggio degli aerei, che attraversò a moderata velocità, per poi imboccare la lunga  pista  in cemento, mantenendosi su un lato. Il percorso fu compiuto a grande velocità. Arrivammo alla fine, dove i soldati dell’Onu era sostituiti dai miliziani serbi. Eravamo  increduli e sollevati che  nessuno ci avesse sparato contro. I miliziani serbi si limitarono a controllare i nostri tre accrediti giornalistici. Al ritorno, dopo qualche ora, nessuno ci chiese conto del terzo passeggero mancante e la pista, cioè la terra di nessuno, questa volta faceva un po’ meno paura.

Boban raggiunse la sua famiglia a Belgrado e trovò il modo di ringraziarci. Solo un’altra  persona aveva saputo da noi quello che sarebbe accaduto quella mattina.  A sera, tornati in albergo, ricevette la nostra telefonata: era andato tutto bene e avremmo chiamato noi le nostre famiglie, come al solito. 

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