Terra Santa, Gerusalemme e la Via delle storie. Ho visto anch’io il lungo servizio televisivo, dedicato a questi luoghi e trasmesso all’interno della rubrica della Rete Uno della Rai.
In quei luoghi ho trascorso oltre dieci anni della mia vita. Lì ho lavorato, lì ho raccontato le storie che passavano sotto i miei occhi. Potete immaginare, allora, quale emozione in più del comune spettatore mi ha spinto a vedere immagini ed ascoltare parole su quei luoghi.
Alla fine mi sono chiesto: come definiresti questo racconto? Mi sono ricordato di un’espressione che il protagonista di una fiction americana rivolge alla donna che ama: “Tu sei come il pane e non c’è cosa più buona del pane”.
Questo racconto era come il pane, buono. Friabile, scusate il paragone, come le rosette che si vendevano una volta nei panifici romani: con una spolverata di farina sopra e niente mollica dentro. Quella mollica che infastidisce chi mangia il pane.
Non posso dire diversamente: il racconto è stato buono. Di più: utile. Si sono visti ebrei e musulmani, che pur esistono al di là del conflitto. Ebrei che, ad esempio, condividono la cena di Pasqua con chi ebreo non è. E musulmani che predicano senza arroganza la loro fede ed incontrano il concreto rispetto dei cristiani durante il digiuno nel mese islamico del Ramadan.
Tutto vero e troppo spesso misconosciuto. Come non ricordare poi quella frase pronunciata dal francescano che percorre la via Dolorosa e dice: “Cristo ha percorso una via concreta, come questa, forse proprio questa”. Quanta forza e quanta verità in queste parole, che spazzano il cieco misticismo che, talvolta, attanaglia i pellegrini che giungono a Gerusalemme. I volti ed i suoni delle immagini girate nella via Dolorosa facevano giungere a noi i segni di una strada vissuta, oggi come sempre, da persone in carne ed ossa e non da anime trasparenti.
Eppure, ancora una volta, proprio a questo punto, la strada è stata smarrita. Il pane è divenuto insipido.
Certo, alla fine della via Dolorosa si è incontrato il Santo Sepolcro. Si è scelto però di mostrarlo nei rituali tradizionali e curiali: l’incedere dei frati francescani, la sera e l’alba, il silenzio, l’assenza delle persone, le pietre levigate che riflettono la luce.
Non è questo il sale di Gerusalemme e della Terra santa. Il drone, macchina che ci permette di vedere meglio dall’alto, in realtà quando è giunto sulla Porta di Damasco ha cominciato a nascondere la verità vissuta sulla terra. Si sono intraviste, dall’alto e da lontano, i tetti delle garitte, in cemento e ferro, che servono ai poliziotti israeliani a presidiare ora l’ingresso della Porta di Damasco.
Quelle garitte, invece, andavano viste da vicine. Come tanti altri aspetti dolorosi del vivere quotidiano a Gerusalemme e in Terra Santa.
Né bisognava aver paura di far vedere il conflitto, perché anche questo ha sempre un volto. Quello di una ragazza palestinese di diciotto anni uccisa dai soldati israeliani il Lunedì di Pasqua o quello dei due israeliani uccisi (uno di loro un padre di famiglia di 35 anni) nella via principale di Tel Aviv, qualche giorno prima per mano di attentatori palestinesi.
Guardare al conflitto attraverso i volti di chi è ucciso o ferito ci obbliga infatti a guardare alle persone, alle loro famiglie, alle comunità a cui appartengono. Ci obbliga a guardare alle loro speranze e alle loro frustrazioni. Ci costringe a guardare le ragioni del perdurare del conflitto, che si arricchisce ogni giorno di arroganza e di umiliazioni quotidiane. Ci fa vedere e non censurare nei nostri racconti l’esistenza del cancro dall’apartheid, verso il cui interno sono spinti milioni di palestinesi. A fronte di centinaia di migliaia di coloni israeliani che dissacrano la terra palestinese dove costruiscono le case e il loro futuro, perché fanno dei palestinesi stessi i loro manovali o gli emigranti di un futuro non lontano.
Il pane che si mangia in Terra santa e a Gerusalemme, spesso, troppo spesso, ha questo sapore amaro.
Ai cristiani, anche a quelli di Terra santa, si chiede di guardare in alto, ma non saranno il sale della terra, se non si faranno carico anche delle sofferenze di coloro che camminano accanto a loro lungo la Via Dolorosa e che forse cristiani non sono. Simone lo ricorda ad ogni approssimarsi della Pasqua.
La foto, scattata da Pino Bruno, è un fermo-immagine della vita alla Porta di Damasco, all’ingresso del Quartiere Musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme.
Caro Filippo, grazie per le tue precisazioni, necessarie, dovute ed indispensabili per uno che lì ha vissuto a lungo e appassionatamente come noi (Raffaella ed io). Vorrei anche aggiungere che tutta la lunga intervista nel kibuz alla nostra amica Angelica Calò (abitava difronte a noi in Piazza Pio XI a Roma) trasmetteva un’immagine parcellare ed edulcorata della realtà israeliana (come troppo spesso accade).
Era Pasqua, però, ed il servizio non poteva che essere così, edulcorato da un incoffessato bisogno di pacificazione dove Pace non c’è.
Non voglio quindi dare la stura ad una troppa facile polemica di come i media trattano in maniera diversa la saltuaria, bestiale e controproducente violenza palestinese a confronto di quella quotidiana, capillare e pervesa israeliana! Ma si sa anche tra i media c’è una enorme sproporzione di potere tra le due parti…
Ciao e grazie Tonino