Sergio Canciani. Sui confini della Storia

Sergio Canciani è morto ieri a Trieste. Dietro i suoi spessi occhiali e  il portamento altero e quasi scostante  aveva una dolcezza profonda e una sottile ironia, anche verso se stesso. Se n’è andato dalla città che lo aveva visto nascere  e che per lungo tempo ha amato. Poi, andando avanti con gli anni, mi confidò che non sopportava più la “bora”, quel vento forte e freddo che spazza le strade di Trieste in inverno. Così aveva cominciato ad amare un’altra città, Bologna, dove era approdato per curare la sua gamba all’Ospedale Rizzoli. Una bella città, diceva, dove è possibile vivere meglio  che a Trieste, soprattutto d’inverno.

Ci scambiavamo queste e altre confidenze, ma il primo incontro non fu semplice. Canciani era a Zagabria nell’autunno del 1991. La guerra era esplosa in Croazia, dopo quella brevissima, appena undici giorni, che aveva attraversato la Slovenia nel luglio precedente. Ricordate i carri armati dell’esercito jugoslavo al confine di Fernetti, tra Slovenia e Italia? Canciani, che aveva base a Trieste presso la sede regionale  Rai del Friuli Venezia Giulia, era andato in Slovenia e poi in Croazia. Lavorava per tutte le testate giornalistiche Rai, dalla radio al Tg1, al Tg2 e Al Tg3. Era lì, a Zagabria, ormai da alcune settimane, quando chiese a fine ottobre un inviato che potesse sostituirlo, per dare a lui  la possibilità di tornare brevemente a Trieste. La scelta cadde su di me, che allora lavoravo al Tg3  e che ero già stato a Belgrado, nell’aprile precedente durante i vani tentativi della diplomazia europea di evitare la disgregazione della Jugoslavia e l’esplodere della guerra. Ero stato anche  in uno dei  focolai del conflitto tra croati e serbi, nella regione dei laghi di Plitvice.

Sergio mi accolse con la soddisfazione di poter finalmente tornare a Trieste. Anche perché, aggiunse, la guerra era in un momento di stanca e probabilmente (si spinse a dire) sarebbe finita presto. Una previsione che a me, giovane inviato, sembrò fin troppo azzardata. Lo dissi a Sergio con franchezza e lui aggiunse: a meno che non scoppi anche la Bosnia. La guerra, in vero, continuò per anni, proseguì in Croazia ma si alimentò del fuoco divampato in Bosnia.

La nostra amicizia ed il reciproco rispetto nacque in quell’autunno del 1991 e si alimentò durante l’assedio di Sarajevo. Avevamo due  stili di lavoro diversi. Sergio raramente lasciava il suo albergo se non per qualche intervista concordata.  Io avevo imparato a non fare ironia su questa scelta. Quando tornavo dai miei reportage lo trovavo sempre aggiornato su quanto accadeva. Era meticoloso nella sua ricerca di notizie. Iniziava all’alba, ascoltando il giornale radio in lingua tedesca, poi quello in lingua inglese della Bbc. Poi  si sintonizzava sulle radio locali, quella bosniaca di Sarajevo, quella croata di Zagabria ed anche quella serbo-jugoslava di Belgrado. Era un poliglotta che faceva di questa conoscenza il suo punto di forza. Lui era cresciuto negli anni della Jugoslavia di Tito, come presidio alle rivalità etniche. All’inizio del conflitto nel 1991 aveva guardato con sospetto ed ostilità ai nuovi nazionalismi, da quello croato a quello bosniaco, a quello albanese. Io argomentavo che i “difensori” dell’unità jugoslava nulla avevano a che fare con Tito. La Grande Serbia di Milosevic era il nuovo volto nazionalista della vecchia Jugoslavia. La vera miccia della disgregazione della Jugoslavia. Ho sempre ammirato il rispetto con il quale ascoltava le mie argomentazioni. Immagino il dolore di vedere la città di Sarajevo, città cosmopolita, cresciuta sui matrimoni tra serbi e bosniaci, con il ritratto di Tito quasi in ogni casa, bombardata ogni giorno, per lunghi mille giorni, da assassini senza scrupoli. Così dal rispetto sono passato all’affetto. La notte  a Sarajevo, quando Canciani usciva dall’albergo, in pieno coprifuoco, per prendere una boccata d’aria non mancavo di uscire anch’io per osservarlo e se necessario per proteggerlo.

Anni dopo, a Tirana, seduti l’uno accanto all’altro sulla terrazza di un albergo che guarda piazza Scanderbeg mi disse che gli sarebbe piaciuto va andare a Mosca a fare il corrispondente. Fui contento quando la Rai fece quella scelta. Fui felice anche per Sergio, che parlava il russo, conosceva la storia della Russia ed amava la sua letteratura. A Mosca è stato oltre dieci anni. Ha seguito l’ascesa di Putin il “nuovo zar”. Io l’ho seguito dalla mia sede di Gerusalemme.

Quando ci  siamo visti a Roma lo ricordo felice perché il figlio aveva raggiunto a Mosca il papà e la mamma.

La persona colta e innamorata dei suoi libri, il giornalista esperto e un po’ burbero, l’Inviato nei Balcani e poi corrispondente a Mosca, aveva anche un grande cuore.

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