La mia sorellina

Era un giorno di fine giugno del 2003 quando Vittorio Citterich mi chiese di andare a trovarlo a casa. Ci conoscevamo da tempo e conoscevo anche la sua casa. Un appartamento luminoso, ricco di oggetti, quadri, ricordi  vicino a Villa Ada, una delle storiche ville romane,  e  alle catacombe di Priscilla, sulla via Salaria. Ero sinceramente curioso di sapere il perché di quella richiesta. Da qualche anno era andato in pensione, lasciando così la Rai e il Tg1. Tuttavia, non ci eravamo persi di vista. Andavo a trovarlo, insieme a Paola, mia moglie, quasi ogni volta che tornavamo a Roma dal Cairo, o da qualche mia lunga trasferta prima in Jugoslavia e poi in Medio Oriente.

Prendevamo il tè tutti insieme, non mancava mai anche Marilù, la moglie di Vittorio. Mi informavo della sua salute, perché vedevo la sua malattia (il diabete) sempre più   evidente nelle conseguenze. Lui aveva la forza di scherzare anche su questo. Brandiva una lente di ingrandimento che gli serviva per leggere il giornale e guardava Marilù, con sguardo riconoscente, perché il pomeriggio e la sera lei leggeva per lui pagine dei libri che riceveva a casa o che amava rileggere. Poi si parlava di me e Paola, della nostra permanenza all’estero, dei nostri incontri.

Lui, era quasi incredibile, arrivava spesso un momento prima. Voglio dire che il suo lavoro e la sua fraterna confidenza con Giorgio La Pira lo avevano condotto in tanti luoghi che noi cominciavamo solo in quegli anni a frequentare. Ricordo il mio sincero stupore quando ci parlò di una sua visita al Cairo, insieme a La Pira, negli anni Sessanta. Era andato anche in un quartiere popolare, Shubra, dove i salesiani avevano aperto una scuola tecnica. Quella stessa scuola che io avevo visto nei miei primi mesi di permanenza al Cairo, nella primavera del 2001.

Quel giorno di fine giugno Vittorio parlò subito del mio trasferimento dal Cairo a Gerusalemme. La notizia era  diventata di dominio pubblico, qualche giornale  lo aveva messo anche  nero su bianco. Mi chiese quando sarei andato. Presto, all’inizio di settembre mi sarei trasferito.  Avrei cercato una casa, e Paola e Francesco mi avrebbero raggiunto.

“Ti chiedo un favore. Non so, non credo che  la  mia salute  mi permetterà di andare a Gerusalemme. Allora abbraccia per me l’albero che c’è allo Yad Vashem, quello dedicato ai miei genitori.” La prima reazione fu di sgomento, perché era chiaro che  avevo davanti una persona consapevole dei suoi limiti ed anche della  morte non lontana. Il suo racconto, però, era semplice ed avvincente. Spazzava le nuvole sul futuro per descrivere una storia che sembrava accaduta appena ieri, ed invece andava agli anni dell’occupazione nazista di Salonicco, dal 1941 al ’44.

Vittorio era nato lì, in questa città greca cosmopolita, da un padre italiano e una mamma greca. Nel ’41 ha già undici anni. Mario e Lina, i genitori, un giorno lo chiamano a sé. Gli dicono che  hanno deciso di adottare una bambina, piccolissima. Sarebbe stata la sua nuova sorellina. A chi  gli avrebbe chiesto qualche spiegazione, avrebbe dovuto dire solamente: è la mia sorellina. Vittorio accetta, ma a lui la verità viene comunque subito detta. Rena è la figlia di una famiglia ebrea che ha deciso di lasciare la città per sfuggire ai nazisti, ma vuole prima mettere in salvo la piccola. Bussano ad un istituto di suore cattoliche, e la madre superiore bussa alla famiglia Citterich. Che accettano di tenere Rena. Le faranno imparare il segno della croce e le prime preghiere. Una protezione contro i sospetti, i delatori ed ovviamente i nazisti. Vittorio, come tutti in famiglia, difende con affetto e silenzio il loro segreto. Qualche tempo dopo la fine dell’occupazione tedesca della città, riappare il papà di Rena. La piccola se ne va per la sua strada. La famiglia di Vittorio si trasferisce in Italia, ma la madre Lina morirà proprio in quel periodo.

Quando Vittorio approda al Tg1, nessuno sa degli anni di Salonicco, della bimba ebrea salvata, del rischio accettato consapevolmente di una terribile ritorsione. Vittorio non fa proclami. Non sbandiera quella storia. Sarà Rena, divenuta adulta, a mettersi alla ricerca di quella famiglia che ha difeso la sua esistenza con la propria vita. Dopo alcuni anni chiede ed ottiene dalla direzione dello Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto costruito a Gerusalemme, che  un albero, che un pino sia piantato nel giardino a memoria di Mario e Lina Citterich.

“Tu sei giovane, abbraccia per me  quell’albero.” E’ stato una dei primi gesti che io ho compiuto andando a Gerusalemme, nel 2003.  Ricordo ancora oggi il luogo dove è piantato e sarei capace di ritrovarlo senza tentennamenti. A Vittorio telefonai subito, come uno scolaretto che  ha assolto ad un compito assegnato.

A casa di Vittorio sono tornato molte altre volte. Intanto, il mio tempo a Gerusalemme diventava un pezzo della mia vita. Ne avrei trascorsi undici, di anni, tra Gerusalemme e Betlemme.

Un tempo non facile. Segnato, in quella regione, dal feroce conflitto tra israeliani e palestinesi, dove il rispetto della  verità mi imponeva di dire che i governanti e i militari israeliani, talvolta, anche spesso, uccidevano o ferivano degli innocenti, proteggevano coloni avidi di terra, distruggevano case  e non covi di terroristi, colpivano con arresti anche i pacifisti israeliani. Tutti fatti che accadevano sotto i miei occhi di giornalista e che  non potevano essere ignorati.

Invece, era proprio questo che  mi veniva chiesto, di ignorare o di giustificare, da parte di alcuni in Italia o a Gerusalemme. Alcuni che  si arrogavano, perché ebrei, il diritto di  dire qual era la giusta e corretta interpretazione della realtà.

Non ho mai ignorato o giustificato. Di questo parlavo con Vittorio quando tornavo a Roma e lo andavo a trovare a casa.  Un giorno, forse per fronteggiare la mia amarezza, mi raccontò la seconda parte della storia iniziata a Salonicco.

Vittorio, arrivato in Rai negli anni Sessanta, diviene presto un giornalista prestigioso ed affermato, diviene un volto televisivo. Per tre anni corrispondente a Mosca dal 1967, poi conduttore del Tg1, editorialista ed inviato speciale su tutti i principali argomenti di cronaca e politica estera, dall’Est Europa al Medio Oriente, responsabile dell’informazione sulla Santa Sede. E, tra l’altro, anche prestigioso collaboratore del quotidiano cattolico Avvenire. Tanti apprezzamenti, ma  anche non poche critiche. Tra coloro che  sono i più assidui nelle critiche per i servizi realizzati sul Medio Oriente, Israele e Palestina, ci sono  i responsabili dell’ambasciata di Israele a Roma. Vittorio lo viene a sapere dal suo direttore Albino Longhi. Albino talvolta ne mette a corrente Vittorio, ma sarà sempre Albino, il direttore, a riconfermare la sua fiducia a Vittorio e a controbattere.

Poi un giorno, inaspettata, arriva a Vittorio una telefonata di un alto funzionario del Ministero degli Esteri israeliano, di passaggio a Roma. Chiede di poterlo vedere. Quando si incontrano, a casa, il funzionario israeliano rivela di essere stato  a Roma per alcuni anni e di aver protestato tante volte  per i servizi di Vittorio.

“Adesso scopro che la sua famiglia è tra i Giusti di Israele. Perché lei non lo ha mai detto?”

Per me non sarebbe cambiato nulla, disse Vittorio. Non quando proteggevo la mia sorellina, non oggi che scrivo rispondendo sempre alla mia coscienza.

Credo che Vittorio volesse dirmi che  non esistono altre strade da percorrere.

 

 

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