Omicidio al Cairo

Qualche sera fa ho visto in televisione qualcosa che, di questi tempi, aiuta proprio a capire come va il mondo. Un film “Omicidio al Cairo”, trasmesso in ora tarda su un canale specializzato in pellicole cinematografiche. Il responsabile della programmazione deve aver pensato, nella sua ingenuità: “si parla tanto di Egitto, di arresti arbitrari, di polizia padrona del destino delle persone; allora tiriamo fuori dal cassetto questo film che uno squarcio sulla realtà egiziana riesce a darlo, ed anche bene”.

La decisione di mandare in onda il film diretto da Tarek Saleh – per inciso, una bella pellicola – deve essere sfuggita a chi in questi giorni si affanna (dietro le quinte, anche in Italia) a gettare acqua sul fuoco sul caso dell’ennesimo giovane egiziano finito nelle carceri del proprio paese. Patrick Zaky è il protagonista, suo malgrado, della storia di questi giorni.

Un giovane ufficiale della polizia egiziana è invece il protagonista del film, ambientato a cavallo dei giorni della rivoluzione al Cairo nel gennaio 2011. Vi sembrano due personaggi e due epoche lontani l’uno dall’altro? Non è così, tutt’altro. Non si capisce, d’altra parte, il presente se non si affondano le mani nella melma accumulata nei trent’anni di dittatura del presidente Mubarak (tante volte citato nel film) e negli anni più recenti governati dal presidente ed ex generale Abdel Fattah al-Sisi.

Mentre guardavo il film, l’altra sera, mi sono venuti in mente i ricordi su chi ha l’ultima parola sul destino degli individui, che nascono vivono e muoiono nelle città e nelle campagne in Egitto, Paese dove ho vissuto e lavorato per anni. Dire “la polizia” è troppo generico. L’inchiesta sull’omicidio di una cantante condotta, nel film, da un giovane colonnello della polizia fa emergere la corruzione, la forza prevaricatrice, il potere assoluto su quartieri e strade esercitato da tanti suoi commilitoni. Tuttavia, la parola ultima non è la loro, dei poliziotti, bensì della “sicurezza dello stato”. Tenete a mente che questa entità, che operava prima del 2011, continua ad agire oggi. La “sicurezza dello stato” garantisce ai suoi appartenenti libertà di azione ed impunità. Una decisione maturata al suo interno sulla “pericolosità” di un individuo trova un’azione conseguente, rapida e violenta. La stessa conseguenza che avviene quando la “sicurezza dello stato” si trasforma in braccio armato, al di sopra di tutte le forze di polizia, di decisioni maturate dalle autorità politiche supreme.

Il cerchio si chiude e l’individuo è stritolato. Sotto il regime di Mubarak, sotto il regime di al-Sisi. Nel film si ha anche la bontà – si fa per dire – di farci vedere i metodi delle loro azioni. Dagli omicidi efferati compiuti contro i nemici o contro gli amici divenuti inaffidabili. Non a caso il giovane colonello della polizia – protagonista del film -diventa per il suo troppo zelo l’obiettivo della loro ferocia. C’è anche la tortura, mostrata nella banalità di una stanza di un commissariato di polizia, perché la tortura è un metodo diffuso e non certo esclusivo dei membri dei servizi segreti. Tanto è diffuso l’uso della tortura quanto è consolidata la sua impunità.

Nel film, la scena finale è il prezzo della corruzione, racchiuso in una valigetta che sparisce nella folla in rivolta nelle strade del Cairo, trattenuta strettamente dalle mani di un dirigente di polizia corrotto. Ho sentito dire spesso, ho anche letto spesso “le primavere e le rivoluzioni arabe sono fallite”. C’è del vero, in questo: nel senso che i corrotti ed i violenti sono rimasti aggrappati al potere. Il potere politico in Egitto ha bisogno di loro, li usa ed è usato. Per questo motivo, blandire questo potere politico è pericoloso, rischia di lasciare un pugno di mosche in mano. Così è stato per il caso Regeni. Così si può evitare che accada per Patrick Zaky, studente egiziano all’Università di Bologna, oggi in carcere in Egitto accusato di “attività contro lo Stato”.

“Questa robba”, come Lucia Annunziata ha definito per ben due volte oggi nella sua trasmissione televisiva il caso che vede coinvolto Patrick Zaky, dà fastidio (e molto) a chi vuole, in Italia, incrementare i suoi affari con l’Egitto. Lucia Annunziata si chiede, oggi, se Patrick Zaky sia un appartenente a qualche servizio segreto. Lo stesso dubbio, infondato, fu diffuso anche nel 2016, dopo il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. La melma delle dittature arriva dunque in casa nostra.
Allora noi ci chiediamo: perché vendere all’Egitto tra pochi mesi due fregate e finanziare gli egiziani con un prestito per dare la possibilità di acquistarle? All’Italia cosa ne viene in cambio? Un buon affare e il silenzio sul caso Regeni? Cara Lucia, no grazie.

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