Questa mattina, a Roma, è squillato il telefonino di Gloria. E’ un’amica di mio figlio Francesco. Insieme, due giorni fa, sono tornati in Italia, da Londra. L’Università dove entrambi studiano ha chiuso i battenti, causa coronavirus. In tanti, compresi Gloria e Francesco, si erano chiesti che fare: rimanere? Partire? La decisione, in un certo senso, l’ha presa Boris Johnson. Non per quello che ha detto in tv, i primi giorni del contagio. Bensì per quello che accade a Londra se non stai bene.
Come un razzo, tra gli studenti, era girata la notizia di un collega risultato affetto dal coronavirus. Ancor di più l’atteggiamento dei sanitari davanti a due altri studenti ammalati, forse di influenza forse di qualcosa di diverso.
“Per il momento nessun tampone… Prendete un antibiotico e rimanete a casa. Se tra una settimana non vi è passata, fatevi sentire”, questo hanno detto ai due ragazzi impauriti. Quelle parole sono divenute l’oggetto della riflessione di uno, dieci, cento, mille studenti. Tutti a confrontarsi con la gravità di quello che accade in Italia, dove tutto sembra succedere meno che una influenza stagionale da curare come tale.
“Stare a casa! Aspettare! Non andare in ospedale! Il tampone solo in seguito…!” Davanti a questa prospettiva, non ricercata, ma possibile, in tanti hanno lasciato Londra. In una settimana, cinquemila e cinquecento persone si sono imbarcate sui voli Alitalia per Roma. Voli raddoppiati, anche triplicati per l’enorme richiesta di prenotazioni da parte di una comunità, quella italiana a Londra, che conta centinaia di migliaia di persone, tra studenti e lavoratori.
Appena arrivati, Gloria e Francesco, hanno inviato una lunga email al servizio sanitario della Regione Lazio. Così, d’altra parte, viene richiesto a chi viene dall’estero o da un’altra regione italiana. Hanno indicato i loro nomi, il loro domicilio a Roma, il telefono e molte altre informazioni richieste sul modulo regionale. Con questo atto burocratico hanno iniziato il loro soggiorno romano, anzi la loro quarantena volontaria.
Un atto burocratico messo da parte, immediatamente. Sopraffatto dall’esigenza di fare la spesa, anzi di farsi portare la spesa a casa. Una battaglia dove i negozianti del quartiere, la verduraia, il macellaio, il fornaio hanno dato la loro disponibilità, senza false promesse ma mantenendo gli impegni presi. Anche da parte di coloro che, prima, non avevano mai fatto consegne a domicilio. Un segno di professionalità ed anche di solidarietà.
Poi, stamane, la telefonata: ASL Roma 3. Una lunga telefonata, dettagliata ma cordiale. Domande ma anche richieste e consigli su come comportarsi nei prossimi giorni (misurare la temperatura due volte al giorno, non uscire di casa, segnalare eventuali problemi di salute…). Numeri di telefono, email, nominativi disponibili…
Dunque, non era un atto formale, inviato da una burocrazia anonima e disinteressata! Qualcuno (a nome di quello Stato che ci hanno insegnato sin dalle elementari a scrivere con la S maiuscola) ha alzato il telefono per chiedere “come state?” In fondo, chi è partito da Londra questo, innanzitutto, cercava. Quanta tristezza, inoltre, nello scoprire che il paese patria del capitalismo ma anche della democrazia abbia dimenticato di fare questa domanda ai suoi cittadini.