“Violenza legale” a Gerusalemme

Non sempre la storia si ripete, neppure a Gerusalemme, neppure a Gaza. Dal punto di vista dei feriti, a Gerusalemme, oltre trecento in due  giorni tra  i palestinesi, tutto sembra rinviare ad altri scontri di un passato lontano, ma a ben vedere solo di pochi anni. La  polizia israeliana oggi  è tornata ad occupare  la Spianata delle Moschee, né  si è fatta scrupolo di colpire, con lacrimogeni e bombe stordenti all’interno della Moschea di al Aqsa. Essere all’interno del periodo del Ramadan non è stato un velo per il decisionismo dei nuovi capi della  Polizia israeliana. Questi ultimi si erano già distinti  per aver introdotto, un mese fa, all’inizio del periodo del Ramadan,   un ulteriore divieto: l’impossibilità di pregare il venerdì fuori della Porta di Damasco. In questi giorni è  un luogo quasi obbligato, visto che  ai giovani palestinesi musulmani  è fatto divieto di salire alla Spianata delle Moschee, con l’intento di “evitare”  incidenti. Un divieto, quello davanti alla  Porta di Damasco, considerato incomprensibile  e provocatorio da  molti commentatori israeliani o filo israeliani.

Eppure tutto questo non riesce a spiegare la  vastità della protesta e la  violenza della  polizia. Dietro ci sono mesi di ulteriori “violenze legali” che  fin troppo sbrigativamente sono state  individuate con un nome di un quartiere di Gerusalemme, Sheik Jarrah. La sorte di altre venti famiglie palestinesi sfrattate dalle loro case, dove risiedevano da più di 60 anni, è diventata l’icona della sorte che incombe sugli abitanti palestinesi di Gerusalemme. L’arroganza dei coloni israeliani che  si fa scudo della  “legge” è diventata via via  insopportabile. A fronte di questo, il trasferimento delle ambasciate straniere da Tel Aviv a Gerusalemme, a cominciare da quella degli Stati Uniti, ma anche gli accordi tra Israele e alcuni paesi arabi mostrano tutta  la  cecità della  diplomazia internazionale, incapace  di risolvere le  aspirazioni nazionali ma arrogante nel tentativo di considerare  chiuso  un problema chiave del conflitto tra  israeliani e palestinesi: questo problema ha  un nome Gerusalemme.  Per questo i nuovi scontri a Gerusalemme hanno una  valenza politica internazionale che in passato non avevano così evidente.

Un problema, un’aspirazione nazionale che  va ben oltre  l’interesse religioso. Né si possono liquidare  le  proteste come ispirate e dirette da Hamas. Semmai è da riflettere sulla capacità di Hamas di raccordarsi, oggi più di ieri, su quanto accade a Gerusalemme, e nelle proteste  a Nazareth, Haifa, Lod (periferia di Tel Aviv). Il monito alla  polizia israeliana a sgomberare la Spianata delle Moschee e poi il lancio di razzi da Gaza è un  atto di Hamas militarmente irrilevante, ma  politicamente  importante. La risposta  israeliana appare una riproposizione di forza, che non aggiunge nulla di nuovo se non l’incremento delle  vittime palestinesi ( altre venti   solo ieri e tra questi molti bambini). Si  ripropone, verso Gaza e a Gerusalemme, la  vecchia  politica, dove la “sicurezza” e la  forza militare hanno la  preminenza. I partiti che  in Israele stanno discutendo la  possibilità di un governo alternativo a Netanyahu, per il momento, sono anch’essi dentro la vecchia  politica.

La mia analisi è stata anche pubblicata sul Sussidiario.

La foto, scattata sulla Spianata delle Moschee, ripropone il modellino della moschea di Al Aqsa, terzo luogo santo per l’Islam globale. E’ fatto con gli involucri dei lacrimogeni e delle granate assordanti sparati la mattina del 10 maggio dalla polizia israeliana all’interno della moschea.

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