A Betlemme, 19 anni fa

Ho letto, oggi, alcuni articoli su Maria Grazia Cutuli.  Erano stati scritti per ricordare l’anniversario della sua morte, il 19 novembre del 2001, 19 anni fa. Stranamente nessuno ha ricordato la sua missione a Gerusalemme e a Betlemme, nell’inverno a cavallo tra la fine dell’anno 2000 e l’inizio del 2001. Una delle sue primissime missioni all’estero, dopo essere stata assunta in via definitiva dal Corriere della Sera, nel luglio del 2000. In quell’inverno eravamo nel pieno della seconda intifada ed entrambi eravamo stati inviati, lei per il Corriere della sera, io per il Tg1, a coprire uno spicchio di tempo di una tragedia (nella tragedia del conflitto tra israeliani e palestinesi), che sarebbe proseguita per molti anni.

Quando ci siamo incontrati a Betlemme, la sera di Natale, il 24 dicembre, ricordo che pioveva a dirotto su una cittadina spettralmente vuota. L’intifada, a Betlemme, in quei giorni era una guerra quotidiana, fatta di scontri in strada tra giovani palestinesi e soldati israeliani, ma anche di un ferreo coprifuoco imposto dal comando militare israeliano. In città, in strada, quella sera, non c’erano né pellegrini, né abitanti di Betlemme. Non c’erano arabi cristiani, né arabi musulmani.  I negozi erano chiusi,  come anche le caffetterie ed i ristoranti. Ad eccezione di un ristorante che si affacciava sulla piazza della Natività.

La messa di mezzanotte, che in realtà da sempre  comincia alle 22,30 – era stato confermato dai frati francescani – si sarebbe svolta ugualmente, pur nell’incertezza della partecipazione o meno di Yasser Arafat, come normalmente accadeva dopo il suo ritorno in Palestina nel 1994.

A chiedere conferma di quella messa, davanti all’ingresso della Chiesa di Santa Caterina (contigua alla Natività), in  quella sera carica di pioggia, ci ritrovammo inaspettatamente in tre giornalisti: io ed Enrico Bellano, inviati del Tg1, e Maria Grazia Cutuli.

Raccolte le nostre informazioni, ci guardammo negli occhi e ci chiedemmo cosa fare, fino all’inizio della messa. Le luci accese del ristorante, le uniche accese sulla piazza, ci diedero la risposta. Attraversammo di corsa la piazza, sotto un quasi diluvio, ed entrammo nel ristorante dove non c’era nessuno, ad eccezione dei proprietari che ci vennero incontro. Pensavamo di venire allontanati, ed invece si profusero in parole e gesti di accoglienza. In quella enorme sala che ci ospitava, nessun altro sarebbe entrato, giornalista o meno. La serata, per chi ci ospitava, scivolò  anche nella nostalgia, quando ricordarono la folla immensa, festosa e carica di speranza che gremiva la piazza, giusto un anno prima quando si celebrava la fine del millennio e l’inizio del 2000. Quella sera di fine anno 2000, invece, la piazza deserta, il silenzio, la pioggia battente tutto induceva alla tristezza, più esattamente alla malinconia: un tempo di speranza e pace dissolto nel volgere di pochi mesi. Eppure, di quella sera, ricordo anche il sorriso di Maria Grazia. Ricordo la nostra conversazione, che inciampava e si apriva al sorriso, tra racconti semplici di vita e di lavoro. Pensai in quel momento ed anche dopo, che non eravamo stati noi, io e Bellano, ad aver tolto Maria Grazia all’attesa e alla solitudine di Betlemme, bensì era stata lei ad averci regalato uno spazio di serenità, dentro “una serata magica ed indimenticabile” come Enrico la ricorda.

Maria Grazia, quella sera, mi lasciò il ricordo di una donna e di una collega paragonabile ad un passero, agguerrito e solitario; piena di dolcezza, con la voglia di trovare piena soddisfazione nel lavoro che si era scelto.

L’ultima volta che la vidi fu di fronte  alla colonia israeliana  di Ofra, sulla strada riservata agli israeliani, che da Gerusalemme conduce a Nablus. Erano i primi di gennaio, e in quel tratto di strada, quella mattina avevano appena ucciso in un attentato un esponente della destra più estrema israeliana. Sul ciglio di quella strada, che raccontava ancora di violenza e di morte, Maria Grazia mi disse che si accingeva a breve a lasciare Israele e la Palestina.

Avrebbe trovato la morte, solo  pochi mesi dopo, sul ciglio di un’altra strada, a 40 chilometri dalla capitale afgana. Con lui vennero assassinati altri tre giornalisti, un australiano e un afgano, e uno spagnolo. Conoscevo anche quest’ultimo: Julio Fuentes, inviato del periodico El Mundo. Aveva frequentato, a lungo, Sarajevo, durante quel feroce assedio durato quasi tre anni. Lo avevo incontrato in quella città, era un tipo solitario, ma era un grande giornalista ed avevo imparato a stimarlo. Julio e Maria Grazia se ne sono andati, uccisi, sul ciglio di una strada, ma sono stati capaci di darci articoli e notizie, di trasmetterci la loro insoddisfazione, la loro voglia di vivere, ed anche un sorriso.

 

 

 

 

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